di Javier Barca
Wendy vive a Samoa, un’isola tropicale nel cuore del Pacifico, a tre ore di volo dalla Nuova Zelanda. Si dedica alla cura dei genitori, dei fratelli più piccoli, della casa e dei campi di famiglia. “A volte mi resta anche un po’ di tempo per fare ciò che mi piace di più: confezionare ato laufala”, cioè le tipiche borsette colorate, fatte di foglie secche di pandano.
Dopo essersi presentata con un caloroso “alofa” –in dialetto polinesiano “amore”, la parola che a Samoa si usa per dire “ciao” – Wendy confessa che è felice di mantener viva questa tradizione locale e condividerla con le donne più grandi. Ridiamo e chiacchieriamo un po’, così Wendy continua a parlare di Samoa, un’isola dove tradizione e famiglia sono importantissime. “Nelle famiglie samoane – aggiunge – ogni membro ha un ruolo predefinito e tu sai già qual è il mio, vero?”
Chi ha vissuto in Nuova Zelanda e ha avuto modo di visitare anche i piccoli stati insulari del Pacifico, sa bene che queste terre sperdute sono tuttora patrimonio di storie e usanze ancestrali. E spesso ciò che a noi sembra bizzarro, nei luoghi geograficamente più lontani dall’Italia, è all’ordine del giorno. A Samoa, per esempio, la vita degli abitanti ruota attorno alla tradizione, la fa’a, in samoano. L’essenza della fa’a è la famiglia allargata a cui ci si riferisce come “áiga”: quanto più grande è il nucleo famigliare, tanto maggiore sarà il suo potere perché un samoano non lavora mai per se’ stesso ma per accrescere il prestigio della sua famiglia. E nelle grandi famiglie dove nascono troppi figli maschi uno di loro viene cresciuto come una femmina, secondo un’usanza che non ha corrispettivo in occidente: la tradizione del Fa’afafine, che in samoano significa “come una donna”.
Wendy, nono figlio in una famiglia di dodici fratelli, è un Fa’afafine. Sua madre avrebbe voluto una figlia che si occupasse della casa e della sua vecchiaia ma questa figlia non arrivava mai cosicché un giorno, lei e il marito, decisero…E lui fu l’eletto. Sua madre cominciò a vestirlo da bambina e a educarlo come tale. All’inizio Wendy non capiva perché fosse diverso dagli altri, vestito in abiti colorati e allegri. Invece di giocare a rugby, con i compagni di classe, lui doveva restare in casa a fare “cose da bambine”. Gli crebbero i capelli e gli fecero una coda di cavallo. Era il Fa’afafine della sua classe, ma non l’unico della sua scuola, frequentata anche da qualche altro Fa’afafine più grande di lui. Fino all’adolescenza la parola Fa’afafine per Wendy restò senza senso. Nell’età dello sviluppo, tuttavia, cominciò a comprendere il vero significato della sua esistenza e della sua natura. E lo “scherzo” che il destino gli aveva giocato.
La vita di Wendy non è molto differente da quella dei circa 3mila Fa’afafine che si stima vivano a Samoa e ovunque nel Pacifico: dalle Hawaii all’Australia, dalle Isole Cook fino alla Nuova Zelanda. I Fa’afafine– uomini travestiti da donne senza essere ne’ gay ne’ transgender – cercano rispetto all’interno delle loro famiglie e, fuori da queste, integrazione sociale, valorizzazione e considerazione della loro condizione di “Terzo Genere”. Non sempre ci riescono! Oggi giorno, infatti, i Fa’afafine possono avere vita difficile. Come Wendy, alcuni subiscono il volere delle loro famiglie e ricoprono quel ruolo loro malgrado. Altri scelgono da piccoli e diventano spontaneamente Fa’afafine, ma poi sono ancor più vittime di discriminazioni. Nato o cresciuto Fa’afafine? La risposta è cruciale perché segna il discrimine fra il gesto individuale e libero di avere scelto o di non averlo fatto.
Culturalmente, poi, le isole del Pacifico sono in costante cambiamento e l’equilibrio fra tradizione e modernità resta molto delicato. Wendy sottolinea che ¨quante più difficoltà affronti, tanto più coraggioso diventi¨. E di coraggio devono averne davvero tanto per esprimere il loro vero ¨io¨ davanti all’incomprensione di alcuni familiari e amici, oppure degli isolani più giovani e lontani dalla tradizione. Anche la religione, poi, ha fatto la sua parte. La società samoana è profondamente religiosa e le celebrazioni domenicali, in ogni villaggio, non sono solo un’attrazione per i turisti, bensì un momento di aggregazione per tutti i membri della “aiga”. Mentre il Cristianesimo si era dimostrato abbastanza tollerante, le nuove Chiese cristiane – evangelici, mormoni, avventisti del settimo giorno – giunte negli ultimi decenni nelle isole del Pacifico hanno cominciato a considerare i Fa’afafine una specie di abominio diabolico. Li obbligarono quindi a ri-travestirsi con l’abito maschile e la cravatta per andare in Chiesa mentre loro erano soliti indossare gli abiti bianchi della Domenica, con i loro eleganti cappelli di paglia bianca in testa!
Oggi, in tutto il Pacifico, i Fa’afafine alzano la voce per testimoniare la loro condizione di uomini che si vestono e vivono come donne senza smettere di essere uomini. Affermano con forza che non si sentono donne ne’ vogliono esserlo fisicamente: non sono transessuali, non prendono ormoni, non si sottopongono a interventi chirurgici e respingono tutte le etichette. Fa’afafine è ciò che sono, l’unico nome che li definisce, sia quando lo sono per imposizione della famiglia che quando lo diventano per loro desiderio. In quest’ultimo caso può succedere che il Fa’afafine preferisca emigrare per sfuggire alle pressioni. Molti di loro vanno, per esempio, in Nuova Zelanda per cercare di realizzare i loro sogni: nello spettacolo, nella moda, nell’industria del benessere o nel folklore locale, mondi che per loro sono sinonimo di accoglienza e libertà di esprimersi. Anche qui, dove la mentalità è senz’altro più aperta, possono però subire discriminazioni e restare intrappolati nel mercato della prostituzione e della droga che diventa la loro unica fonte di sussistenza. Allontanandosi dalle loro famiglie sperimentano la solitudine che deriva dalla loro difficoltà a relazionarsi con donne e uomini. Questi ultimi, in particolare, sono attratti dalla loro bellezza esotica ma poi prendono subito le distanze quando scoprono la loro “particolare” condizione. Allora, è il forte senso di comunità, retaggio della cultura samoana, a confortare i Fa’afafine che insieme, appoggiandosi tra loro, combattono l’emarginazione. La loro famiglia diventano gli altri Fa’afafine.
Con la loro intensa sensualità e il loro senso dello humor, unito a un certo talento di cantanti o ballerini, iFa’afafine hanno anche contribuito far conoscere Samoa in tutto il mondo. Tre anni fa, per esempio, parteciparono per la prima volta a un festival di danza e musica samoana organizzato a Francoforte e i tedeschi – un tempo colonizzatori dell’Isola – scoprirono con grande sorpresa quel mondo a loro per lo più conosciuto, nel Pacifico! E pensare che cent’anni prima, quando Samoa era tedesca, alcuni samoani furono messi in mostra allo zoo come un’esotica specie animale!
Il discorso cambia però per i Fa’afafine che sono stati obbligati a interpretare un ruolo nel quale non si riconoscono e che li opprime. Questi ultimi rivendicano il loro diritto a essere uomini e a vivere come tali. Qualche volta riescono anche a liberarsi e ritornare loro stessi ma a caro prezzo: abbandonando l’isola e la loro famiglia. Crudele? Senza dubbio una tradizione famigliare così dura e radicata agli occhi di un occidentale può sembrare inconcepibile. Eppure si tratta di abitudini che trovano una loro ragione nella dimensione locale di popolazioni lontanissime a noi che, autonomamente, strutturano le loro società. In fondo, non serve andare tanto indietro nella nostra storia per ritrovare “regole” altrettanto dure che permettevano solo al primogenito di ereditare il patrimonio familiare mentre i cadetti venivano indirizzati alla carriera militare o al sacerdozio oppure, se femmine, relegate in casa, alla cura dei genitori, o accompagnate in monastero e in ogni caso condannate al nubilato.
I tempi moderni, insomma, hanno regalato ai Fa’afafine, anime libere per antonomasia, qualche possibilità in più per uscire dalle loro piccole realtà locali, studiare e magari realizzarsi, come qualsiasi altra persona. Ma i timidi segni di emancipazione devono tuttora fare i conti con una cultura influenzata dal sincretismo, popolata da Dei e guerrieri, fate e principesse. Sullo sfondo resistono i Fa’afafine, vere e proprie “Cenerentole” del Pacifico: maltrattate ma compassionevoli, solari e allegre, remissive ma caparbie nell’affrontare il loro destino, combattendo coraggiosamente contro le avversità. A sostenerle da sempre è la speranza di conoscere un futuro migliore…E magari, un giorno, anche il loro Principe Azzurro.
Javier Barca Barbarello
Nato a Madrid, laureato in Economia e Commercio e in Scienze del Turismo, la sua attività lavorativa nel settore privato lo porta a New York, dove trascorre quattro anni in veste di dirigente aziendale. Si trasferisce poi a Roma, al seguito del compagno diplomatico, ora marito, e qui si reinventa una professione lavorando per il celebre brand d’interni Flamant. Ha vissuto a Buenos Aires, Nuova Delhi e Wellington, cercando di lavorare senza mai perdere di vista la sua passione: la trasformazione degli spazi vuoti in ambienti belli, eleganti e sempre sorprendenti.