di Anna Lisa Ghini Giglio
La collezione di ceramica e porcellana del Museo Nazionale del Palazzo, Taipei
“Sono le undici di sera, sta cadendo una pioggerella estiva, l’umidità è alta, la città una fantasmagoria di insegne al neon e traffico degni di Manhattan […] Trasmettono mahjong sui televisori sparati al massimo nelle sale giochi, con le loro strobo da discoteca anni Settanta. Le tavole calde sono ancora piene. […] Vedo spingere una carriola piena di gatti di porcellana coperti da un telo cerato, con i motorini che la sorpassano sfiorandola. […] Sono certo che attraversare questa strada mi costerà la vita”.
Scrive Edmund de Waal a proposito della sua visita a Jindezhen, la capitale mondiale della porcellana per un millennio, all’apice del quale, secondo de Waal, si trovavano “camini fumanti fino all’alba, manifatture per la casa imperiale, la città come un’unica ‘grande fornace a molti spiragli’”.
Forse sono le stesse aspettative e perplessità che provo io mentre attraverso un’altra città cinese, Foshan, alla ricerca dell’antica fornace di Shiwan che produce ceramiche dai colori intensi da cinquecento anni e, invece, trovo centinaia di negozi di modernissimi sanitari e piastrelle. Sono, pur sempre, un’interpretazione contemporanea e utilitaristica della ceramica.
La mia passione per la ceramica e la porcellana era nata poco tempo prima. Frequentavo l’Asia già da qualche anno, ma ero rimasta miracolosamente immune dal loro fascino. Poi, nel 2003 visito il Museo Nazionale del Palazzo di Taipei, dove vengono conservati i tesori provenienti dalla Città Proibita di Pechino portati a Taiwan al termine della guerra tra comunisti e nazionalisti cinesi nel 1949.
Un patrimonio unico, la maggiore collezione di arte, soprattutto bronzi, giade, calligrafie, ceramiche e porcellane cinesi esibita nel mondo. Collezione straordinaria anche per il suo stato di conservazione perfetto, perché per secoli è stata curata per essere mostrata alla corte dell’imperatore. Le sale del museo, allora piccolo, in stile anni Sessanta, sono molto cosy, con teche affollate di oggetti d’arte raffinatissimi. Attira la mia attenzione una bacheca contenente varie coppe di ceramica e di porcellana allineate per comparare la loro evoluzione stilistica e tecnologica dal Paleolitico all’ultima dinastia imperiale, la Qing, decaduta nel 1911. In poco spazio quella bacheca illustra il viaggio tormentato verso la perfezione, un viaggio parallelo al corso della storia umana. Una ricerca continua di colori, forme, materiali e tecniche che hanno appassionato e ossessionato molti.
Si parte dai primi cocci di ceramica trovati nelle grotte dell’Hunan, usati probabilmente per cuocere il riso selvatico, per passare agli stampi di ceramica per la produzione del bronzo, alle figurine votive e alle urne cinerarie da deporre nelle tombe nel Neolitico. Queste ceramiche vengono colorate con prodotti naturali, ma non impermeabili, quindi non duraturi. D’altronde la tecnica dell’invetriatura a piombo, che consente di impermeabilizzare il vasellame, probabilmente è arrivata in Cina dal Mediterraneo solo tra il 475 e il 221 a.C.. Come si fa l’invetriatura a piombo? Si applica un rivestimento di piombo e silice che, una volta cotto, conferisce all’oggetto un aspetto vetroso comunemente chiamato ‘vetrina’. Se si aggiungono dei pigmenti (in genere ossidi di metalli) la vetrina assumerà sfumature colorate.
Una volta arrivata in Cina i ceramisti usano la vetrificazione per creare vasellame monocromatico da utilizzare durante i riti nei templi e statuette votive policrome per le tombe: soprattutto blu, bruno e verde. Proprio il colore verde, il colore delle montagne e della giada, diventa oggetto di ricerca ossessiva sino a quando nella regione di Yue (25-220 d.C.), riescono a produrre un gres porcellanato, una protoporcellana verde pallido e raffinato proprio come la giada, la bella pietra per i canoni locali. Secoli dopo questa protoporcellana, il cui nome originale è Qingci (ceramica verde) arriverà in Europa dove il suo colore verde verrà associato al colore dei nastri indossati da Céladon, il protagonista del libro L’Astrea di Honoré d’Urfé, uscito in Francia all’inizio del 1600. Così in Francia, e nel resto del mondo Cina inclusa, questo stile viene ribattezzato Celadon.
Dalla protoporcellana alla porcellana vera e propria è un passo: infatti emergono poco dopo (220-589 d.C.) pezzi cotti ad alte temperature e più solidi della ceramica. Vengono da Jingdezhen, cittadina seduta ai piedi del monte Kaolin, dove viene estratto proprio il caolino, materiale bianco che conferisce solidità e traslucenza: i cinesi lo chiamano ‘ossa della porcellana’.
La porcellana, nella definizione europea, deve essere bianca translucida e risonante. In Cina, invece, si mantiene una visione ampia, senza legami a rigidi dogmatismi. Ciò permette di sperimentare nuove estetiche, ribaltando anche certi canoni. Per esempio su una struttura di caolino, bianco, viene applicato un rivestimento contenente feldspato, che conferisce all’oggetto un biancore freddo, con screpolature azzurrognole. Così anche il craquelé, inizialmente considerato un difetto, diventa un effetto ricercato. E poi perché limitarsi al solo bianco? Perché non applicare un rivestimento a più strati bluverde o grigioverde, forse grazie alla presenza di agata, sul gres porcellanato, creando un rivestimento di colore più spesso del gres sul quale viene applicato. Ѐ l’esclusivo stile Ru, dal colore “del cielo, nei momenti in cui le nuvole si aprono subito dopo la pioggia”, secondo alcuni scritti cinesi. Leggenda vuole che la maggior parte delle opere Ru siano state distrutte dalle invasioni dei barbari Jurchen, che demolirono sia la fornace nell’Henan che le produceva che l’antica capitale Kaifeng (1126-27). Per cui ne rimangono oggi solo 70 pezzi al mondo di cui alcuni proprio al museo di Taipei.
Ma la porcellana in Cina non è solo monocromatica: a Jingdezhen disegnano decori blu con motivi mediorientali inizialmente su ceramica, poi su porcellana bianca successivamente vetrificata, destinati all’esportazione, soprattutto in Persia. Verso il 1500 queste porcellane bianco blu arrivano in Europa dove vengono chiamate ‘stile Kraak’ (in Italia anche ‘Ming’ dalla dinastia cinese dell’epoca) e hanno un successo tale da essere celebrato nell’Adorazione dei Magi dipinta da Andrea Mantegna in cui Gasparre viene ritratto con una coppa di porcellana contenente monete. Un successo inaspettato e inspiegabile. E così a Jindezhen fioccano gli ordinativi di caraffe, piatti, zuppiere, interi servizi per le monarchie europee e le loro corti. In Europa ci sono vari tentativi di imitarla. Ci prova il Gran Duca Francesco I a Firenze nel 1575, con un impasto soffice decorato in blu su sfondo bianco come la Kraak, che viene chiamato la Porcellana dei Medici e di cui ne sono rimaste una sessantina di pezzi al mondo.
In Cina, invece, i decori blu sono considerati inizialmente pacchiani, ma diventano presto ricercatissimi grazie alla purificazione del blu cobalto dalle impurità che dona ai decori sfumature blu luminose e raffinate. Anche la famiglia imperiale, principale committente dei ceramisti sparsi sul territorio cinese, gradisce questo vasellame decorato specialmente con il drago, simbolo di potere a esclusivo uso imperiale. Ma non ci sono solo i decori blu per i maestri ceramisti cinesi: il rosso è un’altra ossessione. Quello ottenuto dall’ossido di rame durante la vetrificazione è difficile da controllare per la sua tendenza a sgocciolare e sfumare. Si prova a usarlo per imitare i decori finissimi blu: uccelli, fiori, pesci. I risultati sono deludenti. Si finisce per utilizzare l’ossido di ferro, più gestibile anche se conferisce una colorazione aranciata. Cosa fare allora con l’irrequieto ossido di rame? Si sperimenta disegnando un unico oggetto pieno e rotondeggiante, una melagrana, un pesce rosso, un caco, su una porcellana finissima bianca. In vetrificazione il calore conferirà a quel disegno una forma meno realista, una figura un po’ deformata, ma un’estetica incredibilmente moderna già nel XV secolo.
Nel Settecento in Europa, a Meissen, si scopre la composizione della porcellana cinese e la presenza del caolino e finalmente la si riproduce. Le importazioni di Kraak dalla Cina vengono soppiantate, ma non i decori orientaleggianti come nella serie Blue willow inglese dove viene riproposta un’antica Cina idealizzata, la mitica Catai, con paesaggi di pagode e peonie. Comunque gli europei continuano ad assorbire altri prodotti provenienti dall’Oriente. Come le statue in Blanc de Chine raffiguranti divinità del Pantheon Buddista e Taoista prodotte a Dehua, bianche cangianti, o le teiere rosse mattone Yixing, o i ginger vases rotondeggianti con il tappo in stile.
A Jindezhen intanto continua la ricerca di nuove estetiche, con risultati sorprendenti. Come il Sang de boeuf, la colorazione ottenuta grazie alla presenza di ossido di rame durante la vetrificazione in forno senza ossigeno. I ceramisti in realtà stanno cercando di riprodurre la formula per ottenere il Sacrificial red, tipico del vasellame usato durante i riti sacrificali tre secoli prima. La formula è andata persa. Provando e riprovando ottengono invece un rosso ciliegia/lampone con la superficie un po’ craquelé, poi nominato Sangue di bue, che riscuote un tale successo da ritrovarlo tuttora sulle piastrelle rosse che ricoprono i muri di alcune stazioni centrali della metropolitana di Londra.
Sempre nel Settecento i missionari europei, soprattutto italiani, portano nuovi colori e insegnano le tecniche di colorazione dei vetri. Nascono porcellane famille rose e famille verte, dall’aggiunta di smalti colorati nelle decorazioni (come pesche e fiori) sopra la vetrina.
Arriva il Novecento e con esso la rivoluzione repubblicana in Cina (1911). L’imperatore viene deposto, la sua collezione non viene più alimentata e il palazzo imperiale di Pechino, la Città Proibita, diventa un museo. Dal 1931, con l’inizio dell’invasione giapponese in Manciuria, l’intera collezione imperiale viene nascosta per proteggerla da eventuali saccheggi e distruzioni. Migliaia di casse partono così verso il sud della Cina. Poi, la seconda guerra mondiale e la successiva guerra civile. Una parte della collezione finirà a Taiwan, tra il 1948 e il 1949, al seguito del governo nazionalista ormai sconfitto dall’esercito comunista. Diventeranno il patrimonio del Museo Nazionale del Palazzo di Taipei denso di opere, circa 600.000 (in mostra a rotazione), e gremito di visitatori: 3 milioni e novecentomila nel solo 2018. Nel 2007 il museo viene ristrutturato e ampliato: la bacheca non è più esposta, ma rimangono i tanti capolavori ad alimentare il desiderio della porcellana.
Foto di National Chiang Kai-shek Memorial Hall. All Rights Reserved.
Per approfondimenti:
1. National Palace Museum, Taipei: https://www.npm.gov.tw/en/
2. Caterina Lucia Yishu. Manuale di storia dell’arte cinese
Aracne Editrice 2007
3. de Waal Edmund La strada bianca. Storia di una passione
Bollati Boringhieri 2015
4. Jacobson Dawn Chinoiserie
Phaidon 1993
5. Medley Margaret The Chinese potter A practical history of Chinese ceramics
Phaidon 2001
6. National Palace Museum of Taipei The magic of kneaded clay. Ceramic collection of the National Palace Museum
NPM 2018
7. Pierson Stacey Chinese ceramics
Victoria and Albert Museum Publishing 2009
Anna Lisa Ghini Giglio
Master all’Università Lumsa di Roma e Dottorato all’Universita’ di Hull in Gran Bretagna. Ha compiuto ricerche su minoranze etniche, conflitti statali e non statali, violenza e non violenza politica, collaborando con IsIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) e CeMiSS (Centro Militare di Studi Strategici) di Roma e le Università di Trieste e di Udine. Ha vissuto in Cina, Giappone, Hong Kong, Pakistan prima di trasferirsi con la famiglia a Taiwan
Grazie Anna Lisa per questo reportage molto chiaro ed esaustivo.
La porcellana è il nostro futuro: qui abbiamo persino un “Vaso degli Esteri” candidato sottosegretario (v. relativo account Twitter)!
Vi è arrivata questa grande notizia a Taipei?
🙂 🙂 🙂