di Eugenia Gresta
“Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Basterebbe quest’affermazione di Italo Calvino a giustificare la nuova traduzione di Claudia Zonghetti del romanzo tolstojano per eccellenza, Anna Karenina, pubblicato da Einaudi. Eppure, in questo nostro tempo accelerato, ripresentare un testo vecchio e voluminosissimo è un’operazione tutt’altro che scontata, che richiede un certo coraggio e una grande fiducia nell’opera edita. Se è vero che i classici continuano a parlarci, nel caso del classico straniero si deve cercare un medium efficace che riesca a colpire l’attenzione del potenziale lettore. Imprescindibile è dunque la traduzione, suprema arte di compromesso fra l’inevitabile unicità dell’originale e le esigenze della cultura odierna. Le traduzioni invecchiano assieme alla nostra lingua. Un testo tradotto all’inizio del Novecento obbedisce a codici altri rispetto a quelli usati oggi. Un esempio pertinente è la versione del 1939 dello scrittore russo naturalizzato italiano Ossip Felyne. Le vicende di una straordinaria eroina moderna in quell’italiano ormai ingessato, ci catapultano in un tempo fuor di sesto. L’odessita restituisce il celebre inizio del romanzo con un “tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. Impeccabile nel senso e nella fedeltà all’originale, ma la felicità dell’intuizione tolstojana in italiano si perde, oggi, nel retrogusto demodé di quel disgraziata. Le traduzioni (molte) che si sono succedute nel tempo, da quella citata a quella di Pietro Zveteremich del 1965 fino a quella di Gianlorenzo Pacini del 2013 – per citarne solo alcune pubblicate a distanze siderali l’una dall’altra -, si sono dovute confrontare tutte con quell’incipit ingombrante, con risultati diversi, perché diversi sono i vissuti linguistici e culturali dei traduttori e diverse le sensibilità dei tempi nei quali hanno tradotto. Claudia Zonghetti per ultima si è misurata con Anna Karenina, liberandosi dalla morsa della felicità-infelicità tolstojana con un minimo di giusta irriverenza nei confronti delle versioni precedenti e dell’originale russo, e senza paura di sfruttare le possibilità che l’italiano mette a disposizione, laddove il russo è, invece, carente. “Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a suo modo”. L’impaccio del doppio attributo infelice/disgraziata che ha vincolato Tolstoj per mancanza di alternative (la ripetizione dell’aggettivo è inevitabile in russo, in questo caso) e i suoi traduttori per necessità, si risolve qui in una forma pronominale snella e veloce. Il senso non cambia rispetto al testo originale e alla proposta di Felyne, ma la sintassi è più agevole, più dinamica, rimessa in sesto. La convinzione tolstojana ci appare in tutta la sua modernità, riusciamo a percepirne la veridicità e l’immortalità, perchè ci viene comunicata in una lingua nella quale ci riconosciamo, in un codice ridotto, a suo modo accelerato. Si potrebbero indicare altri esempi nei quali Zonghetti ha dimostrato coraggio e una grande sintonia con il nostro tempo, ma sfiniremmo il lettore con tecnicismi inutili. Resta il senso di quest’operazione: Tolstoj non è un classico, perché ce lo dice Calvino. È un classico, perché parla la nostra stessa lingua.
Lev Tolstoj, Anna Karenina, trad. di C. Zonghetti, Einaudi, Torino 2017, pp. 885
Eugenia Gresta
Laureata in Lingue e Letteratura Russa a “La Sapienza” di Roma, consegue un Ph.D. in Slavistica alla Univerisity of Michigan (Usa). Ha vissuto e lavorato a Mosca, Bruxelles e Washington D.C. dove ha insegnato Lingua e Letteratura Russa alla George Washington University. Al suo attivo anche due libri: “Il Poeta e la Folla” sulla poesia russa contemporanea e “Il russo per i più coraggiosi”, manuale per gli studenti pubblicato con la collega Svetlana Zueva. Autrice di saggi, articoli e recensioni apparsi su varie testate, italiane e non, vive oggi a Roma dove insegna lingua e letteratura russa presso l’Istituto Universitario “Carlo Bo”.