di Remo Guerrini
Non c’erano ancora Internet e i social network ma c’era più tempo per raccontarsi e spiegare il senso della vita di un diplomatico e della sua famiglia. L’ho pensato rileggendo le pagine vissute di un “Grande Servizio” pubblicato nel 1982 dallo storico settimanale Epoca, casualmente riaffiorate da un vecchio faldone d’archivio. Testimonianze preziose ritagliate e conservate da Bice Pugliese, oltre trent’anni fa. Gliene siamo grate perché molti articoli del tempo non sono mai stati digitalizzati. Storie bellissime, talvolta al limite dell’inverosimile, di cui purtroppo si rischia di perdere traccia.
Vi riproponiamo – per problemi di spazio, non certo di contenuto – solo alcuni brani del servizio “Diplomazia: la carica dei 700”, a firma di Remo Guerrini, di cui purtroppo sono andati persi i riferimenti temporali precisi. Ve ne chiediamo venia!
“Tedeschi, francesi, brasiliani, olandesi…Gli ambasciatori degli altri paesi se ne erano andati tutti. I sandinisti stavano entrando a Managua, e il regime di Somoza stava crollando. Così ero io a dovermi occupare anche degli affari degli altri. Non avevo che un cancelliere e qualche impiegato: mia moglie dava una mano a mettere in cifra i messaggi per l’Italia, le figlie tiravano avanti la casa. E io, nel rumore delle schioppettate, andavo a succhiare la benzina nelle auto abbandonate dagli altri ambasciatori, per poter far muovere la mia. Meno male che ce n’erano più di una quarantina. Il telefono poteva solo ricevere le chiamate, in ufficio non c’era la luce.
Ci lavavamo con l’acqua delle grondaie: è stato allora che ho imparato quanto sia efficace lo shampoo, non solo per i capelli ma per lavarsi tutti interi…”
Ora Vittorio Amedeo Farinelli, 53 anni, che nel ’79 reggeva l’ambasciata d’Italia in Nicaragua, è tornato a Roma. E’ ministro plenipotenziario e dirige l’Istituto Diplomatico, praticamente la scuola della Farnesina. “Questo mestiere bisogna amarlo, essere pronti ai traslochi e a correre rischi e avventure. Bisogna avere una visione sportiva della vita, altrimenti è meglio rinunciare”.
E così anche per Franco Lucioli Ottieri, 55 anni, che in questi mesi regge l’ambasciata italiana a Beirut, che gli israeliani hanno preso a cannonate giusto un mese fa (un carro armato s’è piazzato di fronte la villetta di due piani e l’ha bombardata aprendo uno squarcio di tre metri nella facciata): è dagli uffici di via Hamra che è passata la trattativa diplomatica che ha portato a Beirut le forze di pace, gli aiuti poi inoltrati alla “Mezzaluna rossa palestinese”. Lucioli Ottieri si è addentrato con i nostri bersaglieri nei campi palestinesi, sventrati e ammorbati dal puzzo delle stragi.
Ambasciatori e consoli, consiglieri e segretari costituiscono oggi un efficiente drappello di non più di 700 persone. Sparse ai quattro canti del mondo (le sedi di ambasciate sono 120, e ad esse bisogna aggiungere consolati generali e consolati) sovraccariche di lavoro (nei due terzi delle sedi gli organici sono insufficienti, in ben 58 di essere è previsto un ruolo di tre persone a fronte delle dieci necessarie) con stipendi che, nelle ambasciate più lontane, arrivano anche con tre mesi di ritardo. Queste persone riescono comunque a far funzionare un corpo diplomatico che è unanimemente considerato uno dei quattro, cinque migliori del mondo.
Con quali prospettive si accostano i giovani a una carriera che l’iconografia mette in feluca, e la realtà obbliga invece a stress, orari continuati, e rischi talora gravi?
“In cima a un’ideale scala di requisiti metterei la buona salute” dice Francesco Malfatti, 62 anni, dal ’77 segretario generale della Farnesina. “Buona salute perché, viaggiando e vivendo nei posti più lontani e privi di confort, se non c’è la salute non c’è nulla. Ci sono paesi africani dove la malaria è endemica e si vive di chinino, altri in cui bisogna perfino impastare l’insalata con il permanganato. Ci vuole anche passione, conoscenza delle lingue, coraggio morale e fisico: non è facile, in certi paesi, dire cose sgradevoli agli interlocutori. E ci vuole senso di responsabilità. La diplomazia è scienza del possibile: non è un poker dove si può barare. Un paese conta per quello che è, non per quello che sembra”.
L’allora ministro degli esteri Emilio Colombo dichiarava a Epoca che “il servizio diplomatico negli ultimi 30 anni è molto cambiato ed è diventato più pesante che in passato” anche per questa ragione, sosteneva ,“se il nostro paese vuole continuare a essere rappresentato adeguatamente deve offrire condizioni economiche in grado di attrarre in diplomazia i giovani più preparati”.
Anche all’epoca, invece, “il rosario delle doleances viene sgranato all’infinito: i fondi per l’Istituto Diplomatico sono scesi dai 347 milioni (n.d.r. di vecchie lire) del ’78 ai 276 attuali. Al Consolato di Detroit non ci sono i soldi per pagare il telefono. All’Ambasciata di Oslo l’inverno scorso hanno preso freddo perché la somma prevista per il gasolio non ha seguito l’inflazione.
“Eppure, se non si vive per il denaro, se si è curiosi di avere esperienze sempre diverse, impreviste e imprevedibili, allora il nostro è un mestiere bellissimo e affascinante” conferma Giorgio Giacomelli, 52 anni, milanese, una lunghissima esperienza nel Terzo mondo. E, in fondo, un certo appeal questo mestiere deve pur averlo se agli esami scritti del mese scorso, per cinque giorni, a otto ore al giorno, s’è presentato anche Pietro Mennea, medaglia d’oro a Mosca, l’uomo più veloce del mondo!
(adattato dalla Redazione di Altrov’è)
Remo Guerrini
Scrittore con diversi romanzi di successo al suo attivo e giornalista di primo piano. E’ stato, per un decennio, redattore, inviato e vice capo redattore presso “Panorama” e “L’Espresso”. Dopo aver ricoperto l’incarico di capo redattore al “Secolo XIX”, ha assunto la vicedirezione di “Vera”. E’ stato direttore di “Focus” per tre anni, di “Epoca” per tre mesi, del settimanale Mondadori “Primo Piano”, e alla fine direttore de “Il Giorno” e direttore editoriale delle testate della Poligrafici Editoriale, ovvero “Il Giorno”, “Il Resto del Carlino” e “La Nazione”.