di Stefania Bertoni Sperduti
Non è facile viaggiare all’interno dell’Etiopia, Paese che si confronta con il problema dell’insicurezza nelle aree (non certo limitate) esposte ai conflitti e all’instabilità.
Il meridione, al contrario, è generalmente considerato sicuro da visitare, senza particolari accortezze. Abbiamo quindi organizzato un viaggio proprio in quelle zone remote partendo dalla capitale, Addis Abeba, e scendendo in aereo verso l’estremo sud, al confine col Kenya, fino a Jinka, la capitale dell’Omo Valley, la vasta regione che corre lungo l’omonimo fiume. Un territorio di rara bellezza dove la vita delle tribù che lo abitano è scandita dai ritmi della natura e si sviluppa in totale simbiosi con quella.
In poco più di un’ora di aereo ci siamo sentiti come teletrasportati agli albori della civiltà umana complice lo straordinario isolamento in cui hanno sempre vissuto gli abitanti della valle: una quindicina di tribù, diversissime fra loro per cultura e tradizioni proprio per via delle scarse interazioni tra loro. A prima vista colpisce proprio la loro arretratezza: l’isolamento, il principale responsabile del mancato sviluppo è anche il fattore che ha permesso a queste popolazioni di preservarsi con gli stessi identici usi e costumi fino ai giorni nostri!
Con la nostra preziosa guida, Addisalem Habtamu, professore dell’Università di Jinka, a bordo di una jeep con autista, ci siamo addentrati nella Valle risalendo lungo il fiume che segna il confine e sfocia nel lago Turkana, in Kenya.
I tour operator locali normalmente propongono un percorso che parte dalla visita del Museo Etnografico di Jinka e prosegue con scoperta delle tribù dell’entroterra. Quelle che abbiamo incontrato erano per lo più dedite alla coltivazione di mais o sorgo, cereali base della loro alimentazione. Spesso ci si imbatte in mucche, libere di girare nel villaggio perchè non sono allevate per la carne e, infatti, raramente vengono macellate. Sono piuttosto usate come merce di scambio nei matrimoni o per il loro latte che è il principale ingrediente dei pasti: viene mischiato e fatto bollire con sangue bovino che si ottiene facendo una specie di salasso sul collo della mucca. Questo ‘cocktail’ proteico nutre adulti e ragazzini. Il sorgo, un cereale autoctono, viene raccolto dalle tribù più stanziali e macinato su pietra a mano come l’uomo ha sempre fatto dall’inizio dei tempi. Se ne ottiene una polvere farinosa con cui si prepara una pappa simile al ‘porridge’ d’avena: è l’alimento di base per tutti e viene anche utilizzato nello svezzamento dei bambini.
I pochi turisti che si addentrano nella Valle sono accolti calorosamente dal capo villaggio a cui si deve normalmente corrispondere piccole somme di denaro per potere avere il permesso di fotografare. Capita anche d’imbattersi in tribù completamente nomadi che si spostano in funzione delle piogge, senza mai allontanarsi troppo dal fiume.
L’atteggiamento verso gli “stranieri” cambia molto, da tribù a tribù. Alcune sono particolarmente attratte dai colori dei nostri capelli oppure dai nostri telefonini; altre invece ostentano totale indifferenza mentre i bambini sono generalmente conquistati dai visitatori e dalla possibilità di vedersi in foto e farsi dei ‘selfie’, cosa che invece molte donne rifiutano.
Gli insediamenti prevedono piccole capanne di paglia, facilmente trasportabili, disposte in un terreno abbastanza circoscritto. I turisti possono assistere allo svolgimento delle varie attività quotidiane: la bollitura del latte o la macinazione del sorgo ma anche all’esecuzione di compiti più impegnativi come, per esempio, la lavorazione del ferro per costruire utensili, punte di lancia o coltelli.
Gli uomini non sono quasi mai nel villaggio perché seguono le mucche al pascolo mentre le donne accudiscono i bambini e fanno lavoretti artigianali (per esempio utilizzando creta che poi viene colorata con terra ed estratti di piante). Vendono anche collanine e statuette ma consegnano sempre i proventi dei loro piccoli commerci al capo villaggio che amministra le risorse per tutti.
L’aia del villaggio è molto più di una ‘piazza’ cittadina. E’ il centro della vita attorno cui ruota tutto. Qui le donne partoriscono, aiutate dalle donne più anziane e dalla suocera; qui cucinano insieme i pasti e ci si pettina usando terra e burro, per tenere rigida e composta la tipica pettinatura femminile (un caschetto fatto di treccine).
I monili indossati dalle donne indicano il loro stato: nubili, sposate o madri. Gli uomini invece si decorano il corpo con complesse incisioni utilizzando le lamette (richiestissime) che indicano lo stato di guerriero o di capo.
Le due tribù sicuramente più conosciute sono quella dei Bodi e dei Mursi. Questi ultimi sono facilmente riconoscibili per la deformazione del labbro inferiore femminile che viene tagliato nell’adolescenza per permettere l’inserimenti di un piattino di terra dipinto che negli anni sarà via via sostituito da piattini di diametro superiore. In età matura le donne Mursi possono avere bocche con labbra inferiori sporgenti anche di 10 centimetri o oltre.
Per le donne Bodi, invece, il rituale taglio del labbro inferiore avviene solo dopo una o più gravidanze. Comunque sia queste donne ‘indossano’ sempre il piattino in presenza del marito e lo tolgono solo per mangiare o se il marito è fuori dal villaggio.
Le cerimonie religiose sono legate alla stagionalità oppure a fenomeni climatici come la pioggia o ai vari rituali incluso la tradizionale competizione maschile tra chi ha il ventre più grosso. Chi vi partecipa, in questo caso, deve seguire una dieta iperproteica di solo latte e sangue per un periodo di almeno due mesi. Questo è infatti il tempo generalmente necessario per poter ‘gonfiare’ a dismisura il proprio ventre e potere partecipare a questa singolare gara.
L’esperienza che più ci ha emotivamente colpito, forse perché l’abbiamo affrontata senza adeguata preparazione, è avvenuta nella tribù Hamar, in una zona della valle arida e montagnosa, molto difficilmente raggiungibile per la mancanza di strade. Qui abbiamo assistito alla cerimonia d’iniziazione dei ragazzi che si compie al raggiungimento della maturità. Si svolge in un largo spiazzo dove la famiglia dell’iniziato cucina e offre cibo agli invitati in attesa che si compia il rito. Un giovane uomo, designato dal padre ‘idoneo’ a diventare uomo e marito, viene sottoposto alla prova del salto delle mucche.
Dopo giorni di preparazione, il ragazzo è denudato, rasato, privato dei suoi averi e accompagnato dai suoi ‘padrini’ (uomini che hanno già superato la prova) nel luogo prescelto. Mentre si procede con i preparativi del ‘salto’, gruppi di ragazze munite di trombe e semi coperte da magliette arrotolate sulla schiena, danzano incessantemente invitando i giovani candidati all’iniziazione a frustarle a sangue con un ramo di albero. La fustigazione va avanti, senza che la tribù se ne abbia a male, finché le scudisciate riducono la loro schiena a brandelli, anche riaprendo la pelle cicatrizzata da precedenti ferite, con il sangue che scorre copioso.
Questo momento straziante dura parecchio e prevede, non di rado, che i ragazzi siano letteralmente strattonati per obbligarli a dare altre frustate. Il momento clou della cerimonia arriva quando le mucche (fino a un massimo di 8, secondo la possibilità economica della famiglia) sono prese per le corna e la coda e tenute in fila, allineate una accanto all’altra, dai ‘padrini’ dell’iniziato.
A quel punto, incitato dalla folla, il giovane completamente nudo (come alla nascita) prende la rincorsa e salta sulle mucche correndo sulla loro groppa per almeno quattro volte consecutive.
Il successo della prova determina il seguito della cerimonia: se il giovane supera i quattro salti di corsa, allora dovrà lasciare subito la sua casa e andare sulle montagne con un suo padrino, dove dovrà provare di saper sopravvivere senza l’aiuto della tribù. Al suo rientro, dopo la festa (durante la quale le mucche saranno uccise e mangiate nel villaggio) la madre del giovane dovrà trovargli una moglie. Solo dopo aver organizzato le nozze, la famiglia chiamerà di nuovo a casa il ragazzo che adesso può essere marito e padre.
Questa cerimonia, unica nel suo genere, è ormai abbastanza famosa (su YouTube si possono vedere anche dei filmati) Tuttavia esser stati testimoni di un rito che per le nostre sensibilità è estremamente crudele ci ha lasciato per giorni atterriti. E’ difficile realizzare che per queste ragazze la fustigazione è, in realtà, un onore: in questo modo offrono al potenziale marito la loro devozione totale e dimostrano di essere forti in vista di possibili difficoltà future perché devote e capaci di sopportare sacrifici.
Anche visitando i Kara, una tribù certamente più stanziale e organizzata (hanno anche piccole fattorie e scuole per i bambini) abbiamo constatato una volta di più la totale assenza dello Stato. Al massimo solo qualche ufficio di cooperanti o di Ong sono presenti in questi territori e questo conferma che la cultura ancestrale delle tribù non accetta intrusioni.
Eppure, i problemi pratici che le tribù devono affrontare non sono di poco conto: la mancanza di acqua e di pozzi obbliga donne e bambini a percorrere lunghi tratti di strada, a piedi, trasportando taniche di acqua. Scavare altri pozzi darebbe sicuramente sollievo alle popolazioni. Anche i mezzi di trasporto sono un problema serissimo. Il governo ha donato dei cammelli che avrebbero sicuramente potuto essere utilizzati per trasportare beni e persone. Invece ne abbiamo incontrati tantissimi, allo stato brado, sul ciglio della strada. I cammelli non sono conosciuti nella Valle, di conseguenza, come qualsiasi elemento estraneo alla cultura del posto, non sono ‘accettati’: nessuno se ne interessa e ne intravvede il potenziale. Infine, chi intende addentrarsi nell’Etiopia profonda dovrà fare i conti con l’assenza di tanti altri servizi, compresi quelli ricettivi…E prepararsi ad affrontare un viaggio duro, che mette alla prova sia il fisico che le emozioni.
Probabilmente un antropologo riuscirebbe a spiegare meglio di me queste popolazioni. Io ho provato semplicemente a raccontarle sulla scia delle emozioni ancora vivissime che quest’esperienza davvero unica mi ha consegnato.
Stefania Bertoni Sperduti
Nata e cresciuta a Roma, ha studiato per quattro anni in una scuola di formazione psicoanalitica prima di sposarsi e trasferirsi in varie sedi con il marito e le due figlie. Appassionata di storia dell’arte e sempre curiosa di visitare nuovi musei, ha lavorato per tre anni come volontaria nella Delegazione FAI di Roma. E’ rientrata recentemente a Roma dopo aver seguito il marito, Ambasciatore italiano presso l’Unione Africana.