VECCHIACCIA

Eleonora Mancini Durante Mangoni

Va a nuotare sempre alla stessa ora. Posteggia il motorino, lo incatena al primo palo che trova e si toglie il casco scuotendo i capelli canuti. Entra a testa bassa negli spogliatoi della piscina comunale,  si  infila il costume sformato,  l’asciugamano  sulle spalle, e    scende i gradini della vasca. Nessuno le fa caso e lei non fa caso a nessuno. Del resto quel tempo non è ancora il suo. Quando la investe l’odore di cloro, quando il calore le colorisce il viso, si sente libera persino dalla sua bruttezza ed è felice: “L’acqua, il cielo… sono la stessa cosa”.

Galleggia sul dorso immersa nella corsia vuota, quella del nuoto lento, quella  meridiana dei vecchi. Muove leggermente le gambe magre avanzando, poi si rigira goffamente nel tepore.
Solo un vecchio panciuto con un’aureola di capelli bianchi attorno al cranio pelato, le fa un cenno  di saluto. E’ un cuore buono, lei lo sa. Per questo gli risponde e lui vacilla d’emozione a quel  segno d’affetto senza pretese, fuori stagione.
Poi riprende a nuotare, una bracciata dietro l’altra, un pensiero dopo l’altro, inspiro espiro, sotto la ragnatela dei pali d’acciaio che sostengono il soffitto. Nuota finché le gambe non ricadono senza forza.

Quando esce dalla vasca, la seguono sguardi a pelo d’acqua, sospiri persi nella nebbia. Rimanere qui per sempre, dissolversi nell’acqua e dimenticare il cielo.
Se solo non si fosse già levato il vento, il suo vento che la chiama e non può più ignorarlo. Si asciuga in fretta e corre fuori, i capelli mezzo bagnati e l’aria assatanata. Spinge il motorino giù  dal cavalletto ed è in sella, pronta a partire. La velocità le entra nelle narici con l’odore brunito  degli ingranaggi, mentre accelera per la strada vuota, il volto coperto dal casco e la gola ben stretta nella sciarpa.

A Tor Sapienza baluginano le luci soffocate dalla nebbia, sfilano gli alberi secchi e la gente ha il  passo lento dei primi di gennaio. Tor Sapienza è casa, seppur inerpicata all’ultimo piano di un palazzaccio ferito dal tempo e dalle crepe. Il rombo del motorino investe la strada e il crocchio dei bambini curvi sulle biglie e sullo sterrato schizza via impaurito. Poi si rianima vociante e festoso: “Arriva la vecchiaccia! Anvedi ‘sta vecchiaccia! La vecchiacciaaaa”
Marcolino è quello che grida più forte, la voce acuta e i balzi da scoiattolo dei boschi, le è intorno con i guizzi dei suoi cinque anni.
Lei lo scansa con una manata: “A regazzì, ma vedi d’annattene”. Ma quello le salta ancora tra i piedi, scoprendo le gambette magre. Lei non vorrebbe che mirare al cielo, ma guarda e vede. Vede i segni rossi, vede il marchio delle dita violente impresso sui braccini scarni.

Le manca il fiato, l’istinto è quello di balzare sul motorino a stordirsi ancora di vento e di vertigine. Ma sa che è qui, a questo vuoto pneumatico che deve giungere per poi, se vorrà, ripartire.
“No. Nun vojo più. St’anno smetto”, mentre Marcolino corre via e l’imbottitura del casco raccoglie una lacrima.

Niné, la madre di Marcolino, è curva sui gradini, passa lo straccio e si tiene il naso ferito dalle botte. Suo marito è tornato, per questo ha gli occhi vaghi delle notti trascorse a piangere.
“Piena de fango e de zozzeria, ‘sta vecchiaccia” sibila Niné tra i denti, quando la vede scendere dal motorino. Lei prova a farle un sorriso con gli occhi rossi di tramontana e compassione, ma le viene senza grazia, come sempre, e si perde nel nero e nel fumo dei camini: “Nun t’agità, Niné!”. Ma quella non sente, non sente più niente Niné, se non i passi ubriachi e la chiave che affonda stridendo nella serratura, nel buio della notte, nel suo cuore.

Sale le scale e pensa a tanti anni fa, quando le donne ci avevano provato ad alzare la testa per tutte le Niné di allora e di sempre. Gli striscioni tesi, le vesti larghe, i reggipetti agitati nel vento e pure lei con la sua bruttezza a muso duro come un punto d’onore, con le più scalmanate. Lei, che libera non è mai stata e mai lo sarà, eppure da sempre se la gioca alla pari con padri onnipotenti e madri perfettissime, dallo sprofondo dei suoi cieli neri e della sua giustizia sommaria: buoni e cattivi.
Ma dentro… dentro le risuona il canone irrisolto di tutti i cuori di donna, degli amori incondizionati, delle notti di festa.

Spinge la porta ed entra. La casa stretta e buia la accoglie con tepori umidi e odore di cannella. Siede, chiude gli occhi e riposa la zavorra dei pensieri, tra fragranze di juta e arance candite: “No. St’anno smetto”.
Quando si riscuote, è già notte fonda. Lo sguardo tutt’attorno: la casa è quello che è, tutto è ciò che è, se non il cielo. Il suo cielo nero.

Il carico è pronto ed è già greve sulle spalle, mentre la mano tende al fascio di saggina che freme al contatto con le gambe e la notte.
“Cos’è il cielo! Cos’è questa notte!” mormora ebbra e perduta. Il petto si offre al buio che avanza, alla brezza che irrompe, al battere e levare del cuore di Marcolino che palpita come stella lontana. “Pietà di me” ma è già un’ombra vaga contro la luna. Inerte, allenta la presa e s’abbandona alla vertigine, le dita strette al manico di scopa.
Un istante, lasciarsi andare. Un impeto folle verso terra: schiantarsi e stavolta, davvero, cavalcare il vento.
Ma la scuote un fremito d’attesa, è il vento che flautato la solleva, le canta della strada dei cieli,  dei camini, dei desideri.

Aggiusta il sacco e con un colpo d’anca punta alla Via Lattea, ai tetti, ai pinnacoli fumanti. “St’altr’anno. St’altr’anno smetto…”

6 gennaio 2021

Eleonora Mancini Durante Mangoni

Una laurea in Lingue e Letterature Straniere e una specializzazione all’Università Statale di Mosca, vari anni di lavoro nell’ambito della comunicazione e promozione del “Made in Italy” all’estero. E’ stata membro del Direttivo ACDMAE 2015/2017 con la responsabilità del Gruppo Eufasa e prima sostenitrice del Progetto editoriale di “Altrov’è”.  Attualmente lavora a Roma, per la ROBERTO COIN S.p.a. Ha collaborato con scrittori e giornalisti in progetti editoriali, conducendo lo studio dei materiali di ricerca in lingua russa.  Ha vissuto in Russia, Libia, Giappone.

10 Commenti
    1. Grazie Eleonora. Un volo di penna. Quasi il copione di un “corto”. E chissa’ che non ci sia del vero….;)

  1. Sono completamente d’accordo con Marzia. La “tua” vecchiaccia va’ ben oltre la Festa di circostanza. Brava Eleonora e grazie per questo regalo

      1. Davvero un racconto emozionante! Il dolore e la speranza in una notte romana… grazie per averlo condiviso con noi!

  2. Bellissimo Ele! Questa vecchiaccia che faticosamente ricomincia ogni volta, è una immagine di forza che accompagna ogni donna!

  3. Grazie per il racconto che si legge tutto d’un fiato.. Grazie per i ricordi e per Marcolino, buon viaggio vecchiaccia

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